Racconti
(Andromeda: Tuffo)
ASCESA TRASCENDENTALE
(agli studenti di ieri, oggi, domani)
Racconto inedito
Sono appena ricominciate le lezioni e già penso a quando ritornerò a casa.
L’ateneo sembra un grande formicaio con il continuo via vai a cui è abituato nei giorni feriali:
un brulicare di ragazzi, disposti in fila come formiche, seguono indaffarati i percorsi obbligati che portano alle varie facoltà e segreterie. Una moderna Babele dove si incontrano e scontrano varie culture, dove, disposti su diversi piani ed in diversi posti, stanno arroccati i custodi della conoscenza.
Potremmo prendere le scale ed arrivare prima, ma perchè togliersi il gusto e la possibilità di intessere nuove amicizie, magari diverse da quelle di corso, rimanendo il solito quarto d’ora ad aspettare l’ascensore ?
La conoscenza superiore può attendere, che non è anche questa voglia insaziabile dell’altro, una sua forma meno impegnativa, più libera ed accattivante ?
E’ infatti a terra o al massimo tra il primo ed il secondo piano che si consumano, nell’attesa, le più struggenti passioni.
Ne sa qualcosa il mio amico Vassilis che mi saluta driblandomi con eleganza, per affiancare la finta bionda che mi sta davanti, alla quale tenta di strappare un appuntamento, parlandole dei tramonti romantici della sua Corfù e del Sirtaki ballato a ritmo di cocci calpestati.
Le porte dell’ascensore si aprono, un gruppo entra, si richiudono ed io avanzo solo di qualche centimetro.
Qualcuno alle spalle appoggia le sue mani sulle mie palpebre e con voce contraffatta mi chiede:
- Chi sono ?
Per un momento quel tocco ghiacciato mi raggela le tempie.
Ma chi è costui che cerca in me se stesso ? E perchè dovrei sapere chi è lui, quando non so nemmeno chi sono io ?
Brancoliamo nel buio dell’esistenza, a tastoni cercando il novello Socrate che ci illumini.
Stanche di premere le mani si liberano, mi volto e vedo Kristos, pallido per il freddo si stringe nel cappotto grigio, tossisce e mi porge abbozzando un sorriso gli appunti prestatigli il giorno prima.
Che strano, immediatamente la fila si rompe, la gente si disperde e rimaniamo soli io e Kristos che, nonostante sia greco, mi dice in perfetto italiano, guardando l’ascensore:
- Si sarà bloccato ! Che ne dici di aspettare comunque ? Chissà che non riparta !
La lezione di Filosofia sta per iniziare, ma vale la pena di rischiare e risparmiarsi il fiatone delle sei rampe di scale che portano al 3° piano.
Non ho ancora deciso di rimanere, che avverto un rumore giungere dalla tromba dell’ascensore e grido:
- Sta scendendo. Eccolo ! E’ arrivato !
Nello scorrere le porte si aprono e rivelano un solo ragazzo che, con la voce più dolce e melodiosa che esista, mi invita a salire dicendo:
- Mi attendevi ? Sono Bahram.
La sua mano destra afferra la mia e la stringe calorosamente. Non posso fare a meno di alzare lo sguardo e scorre il suo fisico slanciato e statuario, a mala pena lasciato immaginare da un abbigliamento eccessivamente sobrio, fino a sentire il mio sguardo catturato da due occhi neri come l’ebano, luccicanti dietro le lenti degli occhiali leggeri.
L’ascensore sta per chiudersi e ripartire, ma Kristos non mi segue, rimasto come pietrificato, lo sento appena dire di non sentirsi bene e che andrà a casa.
Non riesco a distogliere i miei occhi dal suo bellissimo viso, mi faccio coraggio e rompo il silenzio domandandogli:
- Da dove provieni ?
Lui sorride, schiude le labbra e dice:
- Da Gorgan, alle pendici dei monti Elburz, nei pressi del Mar Caspio, in Iran, l’antica Persia.
Ho sentito parlare per la prima volta della Persia sui libri di scuola delle elementari, ma dell’Iran solo in TV, e più raramente dopo la morte di Komeini. Penso che ho una grande occasione per saperne di più dalla viva e sensuale voce dell’esponente di un mondo tanto diverso da quello occidentale, a me conosciuto soltanto per le vesti scure ed impenetrabili delle donne e per la rigorosa e religiosa astensione dall’alcol e dalla carne.
Dopo aver premuto tre volte il bottone del 3° piano Bahram mi si avvicina e sfiora il mio naso con il suo, come se mi avesse letto nel pensiero addirittura precedendomi, prende tra il pollice e l’indice la crocetta in pietra lavica nera che porto al collo e mi chiede:
- Credi in Dio ?
Ed io alquanto sorpresa:
-Si ! Credo in Dio.
A questo punto mi afferra le braccia con forza e sollevandomele mi chiede di ripetere con lui alcune frasi in arabo, e così ci provo.
L’ascensore continua a salire. Ma dove ? Le pareti si infrangono e scompaiono per lasciare apparire quelle rocciose di alte montagne, tutte rivolte verso un cielo turchino.
Sembra che il tempo abbia preso tempo.
Suoni dolci, impalpabili, arcani escono dalle labbra di Bahram e si diffondono nell’aria da me duplicati.
Quando anche l’ultima sillaba ha generato la sua gemella, soggetta alla legge di un’eco artificiale, le mie orecchie ritornano a sentire parole familiari:
- E’ una preghiera, il Saluto a Dio.
Immediatamente l’ascensore ricompare e si ferma al 3° piano, inconsapevole di essersi perso l’incanto di una preghiera, la cui armonia mi ha regalato un lungo attimo di serenità e pace, analogo a quello che provo quando prego nella mia lingua, cosa che non faccio da troppo, troppo tempo.
Sono stata superficiale a credere Bahram totalmente diverso da me.
Uno sconosciuto, uno straniero, senza chiedermi nemmeno chi fossi, mi ha insegnato che si può parlare con Dio ma non di Dio.
Abbracciandoci con intensa tenerezza ci avviamo nel corridoio per assistere insieme a tanti altri alla lezione su Martin Buber.
(Andromeda - Gatto grigio su sofà rosa)
Un Terremoto
(A Delia ed al suo amore per gli animali)
Il sig. Filippo Verdi professore di Scienze Naturali in pensione, amico di mio padre che lo aveva sorretto ed aiutato nel momento più tragico della sua vita, quando in un incidente aereo aveva perso moglie e figlio, decise finalmente di trascorrere il fine settimana dalla sorella Flora trasferitasi in Francia.
Chissà come, era riuscito a rompere la monotonia dei suoi giorni sempre uguali, scanditi dalle ore passate ad accudire le piante ed i numerosi gatti randagi che accoglieva nella sua casa immersa nella campagna di C.. Affinché questi non morissero di fame - o piuttosto non perdessero l’abitudine a fargli compagnia - mi aveva chiesto e quasi supplicato di prendermene cura durante la sua assenza ed io avevo accettato a malincuore: sarei dovuta recarmi in quella casa, distante dal centro abitato, per tre giorni consecutivi ed anche più se la Francia fosse piaciuta al professore.
Venerdì alle dieci il prof. Filippo venne in ufficio a consegnarmi le chiavi ed a farmi le ultime raccomandazioni, impegnandosi a portarmi dal suo viaggio una bottiglia di Borgogna d’annata. Trascorsi l’intera mattinata alle prese con la pratica di un certo sig. Felini e, finalmente, all’ora di pranzo andai a casa.
Dopo aver lavato ed asciugato una pila di pentole e piatti rimasti dalla sera precedente, verso le cinque mi rammentai improvvisamente dell’impegno preso. Assicuratami di avere le chiavi di casa Verdi nella borsa, presi l’auto e destreggiandomi nel traffico imboccai il bivio per la campagna.
Delle piante non mi preoccupavo, avrei potuto innaffiare anche sul tardi, anzi sarebbe stato meglio, come da bambina aveva cercato di farmi capire zia Ubalda, la onnipresente vicina di casa in T.: sin da allora mi divertiva questo tipo di “gioco”, utile soprattutto in piena estate, quando il caldo impietoso spinge a mettersi sotto il getto ghiacciato di una pompa da giardino.
Ero invece ansiosa di scoprire eccessivamente affamati i gatti, con i quali non sapevo trattare. Avevo una certa reticenza per via degli artigli che credevo non fossero affatto retrattili, dato che da piccola l’unico mio micio, regalatomi al quinto compleanno, non perdeva occasioni per dimostrarmi il contrario. Mia madre lo aveva trovato piccolissimo accanto al bidone della spazzatura e, accuratamente ripulito, disinfettato ed infiocchettato, era riuscita a rendergli lucido e morbido il pelo marrone a strisce chiare e scure che, da lontano, dava l’impressione di appartenere ad un cucciolo di tigre. I ripetuti e specifici trattamenti di bellezza, dovuti al fatto che si sporcava spesso, amando gozzovigliare tra i rifiuti, non riuscirono ad intaccare l’indole selvatica che gli aveva concesso prima di sopravvivere e poi, un giorno di settembre, di andarsene e non tornare più.
Non rimpiangevo che se ne fosse andato senza un saluto, ma di essermi dimenticata il nome che gli avevo dato, mentre quelli dei due cani supercoccolati da Delia, la mia sorellina, me li ricordavo bene: Mirko, il bastardino fulvo, più alto di un volpino ma dalle stesse sembianze che, piegandosi sulle zampe posteriori e leggermente su quelle anteriori, mi rimaneva accanto immobile tanto da somigliare ad una sfinge, e Dracula, il barboncino nero, qua e là spruzzato di bianco - o forse di polvere - che si era procurato quell’appellativo deliziandosi il palato con qualche gallina nostrana, opportunamente sgozzata e sottratta con fughe rocambolesche al vicino Michele, il quale in più occasioni aveva minacciato di impiccarlo. E così era morto, ma per colpa mia e di Delia che lo avevamo legato troppo stretto nel tentativo di tenerlo fermo per lavare le tracce di sangue che lo avrebbero, per l’ennesima volta, evidentemente incolpato.
Scesa dalla macchina mi precipitai oltre il cancelletto in ferro e, giunta in casa, attraversai velocemente il salone per raggiungere la cucina dove in passato avevo assaggiato le frittelle preparate dalla signora Lisa, la moglie del professor Filippo, ed adesso su un apposito e largo ripiano c’era una varietà di cibo per gatti da fare invidia ad un supermercato, ed una grande ciotola per la pappa.
Mi affrettai ad aprire e versare nell’apposito contenitore quante più scatolette potevo, perché fosse colmo e non dovessi tornare indietro a prenderne altre.
Sapevo che il sig. Filippo era circondato da molti “amici mici”, come si divertiva a dire in quei pochi momenti in cui sembrava dimenticare la tragedia che gli aveva sconvolto la vita ma, non avrei mai immaginato che fossero tanti da far pensare alla Carica dei 101.
All’odore, a mio avviso nauseante, del “pranzetto”, comparvero tutti insieme, giungendo da varie direzioni, neri, bianchi, grigi, striati ed a macchie. Ce n’era per ogni gusto, saltellavano, correvano, inciampando e litigando tra loro per arrivare primi, comunque convergendo in un unico punto, verso di me.
Feci appena in tempo a lasciare a terra il pasto che fu letteralmente divorato e poi, in un battibaleno, i felini svanirono con la stessa velocità con cui erano apparsi.
Guardai l’orologio, erano già le sette e non avevo voglia di ritornare in città, anche perché, con buona pace della anziana zia Ubalba, adesso che il sole stava tramontando si poteva innaffiare ma, non feci in tempo ad aprire il rubinetto, prendere la pompa rosso-sbiadito e vedervi serpeggiare dentro l’acqua, che si levò un forte vento accompagnato da vasti e scuri nuvoloni che si impossessarono subito del cielo prima azzurrino.
Entrai in casa, non avevo paura dei temporali ma, quando cominciarono a vedersi i lampi ed a sentirsi i tuoni sempre più frequenti, sempre più vicini, pensai che non era prudente mettersi in viaggio con quel tempaccio e, convinta che non sarebbe durato a lungo, mi adagiai sul sofà a fiori rosa.
Dovevo essere sicuramente stanca per addormentarmi senza accorgermene e svegliarmi di soprassalto ad un tremendo e costante rumore.
Ne avevo sentito uno simile durante le vacanze di Pasqua passate in C., dai miei: la notte del lunedì dell’Angelo c’eravamo svegliati impauriti per una scossa di terremoto, che poi al telegiornale dissero essere stata del sesto grado della scala Mercalli.
Terrorizzata scattai in piedi come una molla, senza afferrare perché il rumore persistesse e continuasse a rimbombare nelle orecchie, mentre i mobili, le suppellettili e persino il lampadario, stavano fermi.
Cosa accadeva? Stavo impazzendo?
Mi muovevo alla ricerca di una spiegazione plausibile finché non mi trovai di fronte alla maestosa finestra della sala.
Fuori era buio e sul davanzale di marmo spiccava un grosso gatto tigrato che, con la zampa, bussava e spingeva per entrare, provocando quel fragoroso rumore.
Doveva essere abituato a trovare sempre aperta quella finestra se si accaniva tanto. Decisi allora di cedere ed aprii.
Balzato sulla sedia di vimini sottostante la finestra fece un altro sforzo ed una volta sul pavimento annusò, gironzolò, dimostrando di conoscere bene quell’ambiente, come chi voglia assicurarsi che sia tutto a posto, fino a che non mi fu ai piedi ed avanzando minacciosamente mi costrinse ad indietreggiare e sedermi sulla poltrona in tinta col divano.
Mi teneva sotto tiro quando, ad un tratto, mi salì in grembo facendo le fusa.
Non capivo, doveva avermi scambiato certo per il professore, ma più mi stava in braccio e più mi piaceva per quel senso di pace e calma che trasmetteva, nonostante il tempo cattivo. Si strofinava a me e miagolava, facendomi capire di gradire le mie carezze lungo il suo collo, che scoprirono un sottile collare con sopra inciso “Terremoto”.
Istantaneamente ricordai: era questo il nome del gattino trovato da mia madre!
Come avevo potuto dimenticarlo? Come era giunto fin qui e come aveva passato tutti quegli anni?
Ma nulla aveva importanza ora che i suoi occhi gialli, due fari luminosi e profondi, incontravano i miei, contenti di aver riguadagnato il mio affetto.
Racconto Edito
Appunti di viaggio
(A Lella, fedele compagna di giochi)
Da poco i raggi delicati di un sole rosso arancio erano venuti a bussare agli occhi ancora serrati per la salsedine: un sottile ma resistente velo bianco e luccicante che, squarciandosi con l’aprirsi delle palpebre, sembrava aver impermeabilizzato e ricoperto qua e là i nostri corpi semi immersi, tumefatti, lividi, violacei, pieni di escoriazioni che ad ogni minimo movimento rivivevano il dolore provato nel procurarsele.
Quel fondo, ora cristallino e distante, stanotte così tenebroso e cupo, avrebbe voluto inghiottirci, unirci a sé per sempre, d’accordo col susseguirsi impetuoso di quelle onde giganti e brune che, battendo ed avviluppando le nostre membra, avevano deciso, solo al sopraggiungere dell’alba, di abbandonare il loro macabro gioco, per pietà o forse deluse dal nostro ritornare sempre a galla, avvinte com’eravamo a delle funi miracolosamente rimaste legate ad un provvidenziale pezzo di legno, che divenne la nostra unica speranza di riuscire a sopravvivere.
Salimmo sopra il legno con molti sforzi, muovendoci piano e, dopo aver bilanciato il peso per non fare affondare quella zattera di fortuna, cercammo di capire come e perché fossimo giunte lì, in quell’immensa distesa d’acqua, senza proprio riuscire a ricordarlo.
Il sole, amico all’inizio del giorno, aveva deciso, chissà per quale ragione, di esserci ostile, se aveva preso a martellare incessantemente la nostra fronte e ad abbagliare sempre più gli occhi impotenti di fronte a tanta luce, oppure la palla di fuoco doveva essere allo zenit, se le sue spade dorate ed affilate parevano colare a picco nel nostro ventre ancora pieno d’acqua, turgido e rumoroso tanto da far sperare che il legno galleggiante producesse quel rollio.
Come avremmo voluto che fosse così, che ci muovessimo. Invece, nonostante i tentativi di remare col palmo delle mani divenute ormai quasi inerti, rimanevamo sempre allo stesso posto, senza muoverci di un millimetro.
Era tutto inutile. Ma perché c’eravamo salvate dalla mostruosa tempesta per poi agonizzare senza scampo? Dovevamo rassegnarci! Non c’era alcuna via di salvezza per me e per la mia compagna di viaggio e di sventura che, da un po' di tempo, continuava bocconi, con il capo oltre il margine della zattera, a fissare un riflesso argenteo nell’acqua.
Mi incuriosiva che in una simile circostanza se ne stesse buona, buona. Del resto cosa avremmo potuto fare ?
Decisi perciò di interessarmi anch’io a quel luccichio che mandava tremuli riverberi, quasi messaggi morse. Mi avvicinai di più e notai che si trattava di una maniglia, subito mi portai dalla parte opposta e ne scoprii un’altra.
Un pensiero mi balenò in mente e, avventandomi sulla mia compagna, che non capiva bene cosa stesse succedendo, gridai: “ Siamo sopra una cassapanca: la cassa dei nostri giochi d’infanzia! “
Ad un tratto il cielo ed il mare turchini scomparvero ed emerse il pavimento verdino dai mattoni a losanghe della nostra vecchia casa di C.; se avessimo aspettato ancora avremmo visto quei rombi trasformarsi in pesci e quello squalo enorme con la bocca spalancata e piena di denti, (non come la nostra di quando eravamo bambine), inabissarsi e riapparire all’improvviso, intimorendoci e svegliandoci non solo in piena notte, ma persino durante i sonnellini pomeridiani rigorosamente prescritti da nostro padre.
E, quando anche il pavimento verdino lasciò il posto a quello polveroso della soffitta della nuova casa di T., la cassapanca ci apparve nelle sue dimensioni reali: 98 per 50 centimetri.
Il buio della soffitta non permetteva di esplorare l’oggetto appena identificato, così lo spostammo nel punto in cui la luce penetrava dall’unica finestra esistente. Durante il trasporto ci sorprese che la cassa fosse molto leggera ed arrivammo alla conclusione che non contenesse nulla o, al massimo, qualcosa di poco pesante.
Entrambe, per un momento, guardammo la serratura visibilmente apribile ma non osammo sollevare il coperchio, consapevoli che in fondo, dentro, non potevano che esserci i nostri intimi segreti: incubi o sogni che fossero, decidemmo che dovesse continuare a custodirli come un meraviglioso scrigno, come aveva fatto per tanto, tanto tempo.
Tempo ne era passato realmente molto. La cassapanca era completamente ricoperta di ragnatele che provvedemmo a togliere alla meno peggio con le mani. Lungo il suo fianco sinistro, proprio in prossimità della maniglia, a cui per gioco erano state legate moltissime volte quelle lunghe corde che avevano permesso di salvarci dai nostri naufragi fantastici, a furia di strofinare le mie dita inciamparono in qualcosa di ruvido ed appiccicoso: un pezzo di carta, per tutti quegli anni rimasto ancora incollato, con su scritto, anche se non molto leggibile, Bagaglio n. 21.
Non era stata completamente fantasia la nostra!
Qualche viaggio quella cassa lo aveva fatto veramente.